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Il centro italiano

Il centro Italo-Russo per le ricerche su mass-media, cultura e comunicazione

Primitivo, ma non grezzo (Enoteca, novembre 2007). Eugenia Selisceva

L’Italia enologica ostenta, ormai abitualmente, i suoi prodotti toscani e piemontesi come il chianti e il barolo. Ma, pur garantendo una riconoscibilità planetaria, queste “celebrità” lasciano nell’ombra i vini di altre regioni, probabilmente non altrettanto prestigiosi, ma sicuramente molto particolari. Abbiamo intrapreso un viaggio-degustazione attraverso la Puglia per conoscere i suoi segreti e studiare le sue potenzialità.

Il tacco dello stivale italiano è costituito dalla Puglia. “La terra senza pioggia” bagnata dai mari Adriatico e Ionio, esposta ora allo scirocco africano ora alla tramontana dai Balcani scende dallo sprone fino alla suola attraversando l’altopiano tagliato da gravine per arrivare nella valle. Il tragitto per raggiungere le punte estreme della regione supporrebbe più di sei ore di macchina senza soste.

Lo stesso itinerario, intervallato dalle visite nelle aziende vinicole più rilevanti richiederebbe più di un giorno: i più tipici tra i tipicissimi vini pugliesi saranno una decina. C’è naturalmente anche il vitigno “di bandiera”, il primitivo.

Per onore del vero, il primitivo è di origine greca: l’”antenato” di questo vitigno fu portato da alcune colonie elleniche che si stabilirono sulla costa adriatica italiana. Infatti, il vino Merum che assaporavano gli antichi greci fu apprezzato anche dai romani che li sostituirono nel controllo del territorio. La città di Manduria, nella zona sud, fu scelta come centro vinicolo della provincia. Alla fine del XVIII la storia del primitivo conobbe un’altra svolta curiosa: nel vigneto di un monastero vicino alla cittadina di Gioia del Colle (proprio nel centro del “tacco”) fu notato un vitigno che maturava prima degli altri (chiamato “primativo” proprio per la precocità della maturazione del frutto). Il vitigno fu separato dagli altri; così cominciò la produzione cosciente di questo vino, molto corposo e forte. Questo fu il nodo dell’intrigo enologico che ha creato da un primitivo due tipologie differenti e che determina tuttora le vie della cultura enologica pugliese.

Sebbene il concetto di cultura fu introdotto qui non più di 20 anni fa. Prima, quando esordirono già nel mercato mondiale i prodotti del nord d’Italia ormai famosi, il primitivo non era altro che una materia prima: per lo scarso fiuto imprenditoriale degli agricoltori locali tutta la sua forza, la corposità, il colore intenso venivano travasati nel chianti e negli altri “vini nobili” (e, probabilmente, persino nello champagne francese) che mancavano di vigore. Questa trasfusione non necessitava di alcuna tecnologia: bastava ricevere dall’uva il succo, farlo fermentare e poi semplicemente portarlo a destinazione. Niente refrigeratori o controllo della temperatura; le barrique: non ne parliamo proprio! Il primitivo non doveva avere il proprio sapore né tanto meno la propria etichetta. Almeno fino agli anni ‘80 la Puglia e la Sicilia, regioni con simili prodotti e simili destini enologici, si accontentavano del ruolo di fornitori della “materia prima”; ruolo abbastanza oneroso, visto che queste operazioni, non proprio legali, venivano tenute segrete. Tutto finì con la “rivoluzione di velluto” che interessò anche il Nord: la fama del chianti non permetteva più “truffe”. Il Sud invece capì che il suo potenziale (il primitivo è solo l’esempio più emblematico, ma di certo non unico) meritava più attenzione e maggiore personalità.

In linea di massima le aziende vinicole pugliesi hanno provato ad organizzare le loro proposte in due direzioni diametralmente opposte, probabilmente perché non hanno ancora intuito quale delle due porterà al successo, o, più semplicemente, non hanno ancora deciso quale successo vale la pena inseguire, se quello nazionale o piuttosto quello internazionale. Da un lato, si mantengono accuratamente i vigneti autoctoni e i marchi tradizionali, spesso originati da vini “puri”, a base di unico vitigno; d’altro canto, si innestano anche vitigni neutrali, “internazionali”, come il montepulciano, il merlot e il sauvignon. Così si creano prodotti misti che, secondo alcuni, sarebbero più facili da imporre al gusto del consumatore internazionale.

E’ doveroso ricordare che, nel passaggio da gestioni dominate dalle cooperative, spesso caotiche e carenti nella programmazione, a gestioni private, le prime azioni furono rivolte al recupero dei vitigni, appunto, locali: a parte il primitivo sono greco, verdeca, malvasia bianca, bombino, nero di troia, moscato reale... Molte aziende, soprattutto nella zona centrale, hanno cambiato anche tipo di vigneto abbandonando il caratteristico alberello pugliese per la più pratica spalliera, anche a causa dei cambiamenti climatici: nel sud d’Italia le estati diventano sempre più torride. Nell’alberello il frutto, trovandosi molto in basso, è poco ventilato e ammuffisce facilmente. La spalliera invece permette di sollevare i grappoli almeno a 40 cm, salvandoli così dall’acidità. In Puglia, di solito, molti vitigni sono storicamente legati al loro territorio di origine: non di rado gli enologi, salvando le piante, hanno restituito prestigio al territorio stesso (molte denominazioni erano ormai prossime all’oblio).

Per esempio, l’azienda vinicola Botromagno, che occupa una delle colline nei dintorni della cittadina di Gravina in Puglia, è, praticamente, il produttore monopolista del vino DOC Gravina – non per mero calcolo commerciale, ma per una serie di circostanze. Dopo aver acquisito il controllo dell’antica cooperativa, l’attuale proprietario dell’azienda Botromagno Beniamino D’Agostino ha semplicemente acquistato tutti i vigneti intorno al paese che ha prestato il suo nome alla marca del vino, vigneti unici in quanto non potrebbero esistere da nessuna altra parte. Questa zona, sita nella parte centrale della Puglia al confine con la Basilicata, è infatti costituita da una profondissima gravina che spacca l’Alta Murgia. Il terreno è un pò secco, tufaceo, non troppo fertile; i vigneti con l’esposizione nord-sud superano anche i 400 m sopra il livello del mare; per produrre il vino Gravina si usano le viti di greco e malvasia bianca di 15-20 anni: secco anche appena nato, elegante, ha una sensibile fragranza di mandarino e una nota finale amarognola. Il colore giallo paglierino con riflessi verdi si sposa perfettamente con il paesaggio locale, caratterizzato dalla pietra bianca-grigia, dell’erba sbiadita dal sole cocente, del verde intenso degli aghi dei pini mediterranei. Si sposa benissimo con i piatti a base di pesce e frutti di mare, soprattutto crudi, che non si accompagnano facilmente con tutti i vini per un retrogusto particolare e non sempre gradevole. Ma anche se gustato come aperitivo, a temperatura di 8-10 gradi, ha la giusta personalità.

Botromagno vende il Gravina, come alcuni altri vini autoctoni, tra cui anche il primitivo, principalmente agli amatori locali: qui, dov’è ancora solida la memoria storica, non c’è bisogno né di ripetere due volte il nome del prodotto, né di spiegare le sue origini. Basta recarsi a Gravina e ammirare l’antico ponte che cavalca la voragine: è lo stesso ponte che già due millenni fa gli antichi romani usavano per raggiungere i porti a sud della capitale; basta rimanerci un attimo per avvertire quanto è forte, qui, il legame con la storia testimoniata dalle pietre di questo terreno su cui nasce, anno dopo anno, il nuovo vino antico.

I gestori di Botromagno hanno deciso di calibrare la loro tattica commerciale considerando tutto questo: appositamente per incontrare il gusto del mercato esterno, che non custodisce la memoria storica locale, sono stati “adottati” dei vitigni cabernet, merlot e montepulciano che, insieme alle viti di aglianico (tipico della regione Basilicata) e di primitivo, hanno creato, tutti con le stesse dosi del 20%, un “coctail” battezzato 5 Uve Rosse: è la novità della stagione. Questo vino rosso ha nelle sue corde una leggerezza insolita per un primitivo, anche se sa essere spigoloso e cupo. La boccata “iridescente” è caratterizzata dai sapori di lamponi, mora e mirtillo e affonda nel retrogusto di prugna. L’assenza di una rifinitura di tabacco e di pelle (per 5 Uve Rosse non è prevista la stagionatura in legno), da un lato priva il sapore di una rotondità perfetta, dall’altro permette a tutti e cinque i vitigni di cui è composto di esprimersi al meglio. Cambiando il sapore a seconda della temperatura, questo vino camaleontico suscita la curiosità e lascia al produttore lo spazio per sperimentare nuove varianti, tra cui probabilmente anche quella con l’invecchiamento in barrique.

A differenza di Botromagno, l’azienda vinicola Torrevento costruisce la sua politica commerciale, compresa quella estera, sui vini “caratteristici” monovitigno: a questa categoria appartengono 10 dei 17 prodotti dell’azienda. In un certo senso questa scelta può essere spiegata con la localizzazione della casa vinicola: a soli 5 km da Torrevento si trova uno dei siti turistici più frequentati della Puglia, l’ottagonale Castel del Monte riconosciuto come patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Torrevento attira i turisti così, con la vista incantevole sul castello di pietra bianca in perfetta solitudine su una collina isolata e con la curiosa storia dei vigneti dell’antico monastero, e gli presenta la Puglia con i vitigni tradizionali come nero di troia, bombino nero, negroamaro… Purtroppo una certa dispersione dei terreni e un ventaglio forse sin troppo ricco privano il prodotto finito di vera compiutezza: i vini-«campioni» ricordano tagli di bellissime stoffe che sono solo destinate però a diventare abiti. In ogni caso, hanno un sapore ben espresso che accompagna bene i formaggi freschi e le carni leggere, ma non raggiungono ancora la complessità dei vini “di meditazione”.

Tra i vini monovitigno merita senza dubbio una menzione speciale Dulcis in Fundo, un moscato di Trani composto interamente dalla vite moscato reale (la ricetta prevede almeno l’85% di questo vitigno e per la restante parte ci si affida, di solito, alla fantasia, ma la Torrevento, secondo la politica generale, ha preferito la variante pura). Anche questa tipologia, strettamente collegata alla città di Trani (un porto dell’Adriatico di favolosa bellezza), era in via d’estinzione, ma perderlo sarebbe stato un vero peccato per gli amatori dei cantuccini e di altri dolci di pasta sfoglia. In Italia tutti i vini dolci sono naturali (qui sono proibiti gli zuccheri aggiunti), perciò hanno una boccata perfettamente rotonda, vellutata. Dulcis in Fundo è di color giallo-oro, color sole e anche nel sapore conserva i toni caldi e fruttati, con una nota molto leggera di spezie e legno. Si sposa sorprendentemente non solo con la pasticceria, ma anche con i formaggi piccanti e le tartine salate.

La discussione sulle prospettive enologiche della Puglia con gli specialisti di entrambe le aziende si concentra, inevitabilmente, sul primitivo. Il vino che ha determinato, grazie alle sue particolari caratteristiche, il destino vinicolo della regione ormai è considerato addirittura un ostacolo sulla strada verso la maturità, soprattutto nell’Italia stessa: la fama di “fornitore di materia prima” è difficilmente trasformabile nella fiducia e nell’interesse per i prodotti nuovi, di un livello ormai abbastanza alto. Ma di per sé il primitivo, probabilmente, non è il miglior esempio di questo livello: anche prodotto nelle condizioni attuali, con i vigneti “alleggeriti” (prima i contadini puntavano sulla quantità, perciò sovraccaricavano la vite) e gli impianti adatti, questo vino rimane spigoloso. La boccata è aspra, abbastanza armonica, segnata da mela e prugna, con leggere sfumature di cioccolata e pepe nero, ma con una nota finale acidula: secondo molti enologi il primitivo sarà sempre riconosciuto dal consumatore locale come vino “quotidiano”, ma difficilmente potrà contare su un successo più largo.

Nonostante questo siamo riusciti a scoprire, nei dintorni della cittadina di Gioia del Colle (la “sede” storica del primitivo), un’azienda a conduzione familiare davvero interessante. Fatalone è stata fondata dal bisnonno del proprietario attuale che, insieme a suo figlio, coltiva su 8 ettari di terreno solo due vitigni, primitivo e greco (quest’ultimo è stato aggiunto poco fa e in una piccola quantità, per “diversificare”). Lo strato fertile del terreno locale è di 8 cm: più in basso, c’è una lastra di tufo che Pasquale Petrera, il propronipote del Fatalone, ci mostra con orgoglio nella cantina: queste mura di pietra intatta non sono altro che il “fondo” del vigneto. La pianta, pur gradendo il terreno sassoso, non può accontentarsi di appena 8 cm di terra; quindi, usando speciali attrezzature si frantumano ancora circa 70 cm di tufo, il che crea, anche se con un costo elevato, condizioni di temperatura ottimali: le radici della pianta si ventilano anche con il caldo più spietato. Proprio il clima torrido delle estati pugliesi hanno indotto i proprietari a rinunciare al celeberrimo ”alberello” (che si è conservato ancora nella città di Manduria, più a sud): gli evidenti cambiamenti climatici nella regione, battuta frequentemente dallo scirocco (un vento africano imbevuto di una fastidiosa umidità marina), influenzano la qualità dell’uva. Nella Fatalone si usa principalmente la spalliera a due rami, abbastanza alta. Sfruttando, poi, tutte le possibilità di questo vitigno, alcuni anni si vendemmia due volte: in quanto precoce, il primitivo può dare “la seconda generazione” di frutti. In annate fortunate questi appaiono già in agosto e maturano – se maturano – verso la fine di ottobre. La “seconda” uva si usa nella produzione, oltre al classico primitivo, del suo analogo “giovane” che si avvicina al rosato e si distingue fortemente dal “progenitore”.

Interamente controllata dai due proprietari, questa azienda stupisce con il suo ordine incredibile e l’attenzione, quasi maniacale, ai minimi dettagli che ad un estraneo può sembrare quasi assurda. Nella cantina, Pasquale fa ascoltare la musica al suo primitivo: l’incisione dei suoni presi in prestito alla natura ci accompagna durante tutta la visita (il proprietario è sicuro che questo influenzi positivamente gli enzimi del vino). Sopra le botti da 70 litri, dove matura la riserva (le barrique qui non si usano per non offuscare con il legno il sapore del vino), ci sono delle nicchie nelle pareti dove trovano posto i campioni di ogni annata, a partire dal 1986, quando il primitivo Fatalone è stato imbottigliato per la prima volta: molte altre nicchie, per il momento vuote, aspettano le loro annate storiche. “Il primitivo può essere un degno rivale del chianti”, - questo è il motto di Pasquale.

E infatti, la variante classica del Fatalone che abbiamo degustato non ha niente a che vedere con il vino tipico asprignolo “di ogni giorno” che è difficile far apprezzare al mercato internazionale. La boccata di frutti rossi con la dominante di prugna e mora, intensa e molto equilibrata, sembra dividersi in due motivi: il primo, forte, come nel “solito” primitivo, senza troppi preludi trasmette il sapore base – il secondo, un po’ secco, elegante, come eco ripete e smussa il primo. Questa impressione è talmente nitida che si impone l’analogia con il suono: come se al sassofono avessero aggiunto il violino, e il violino, senza imporsi, avesse messo in rilievo la sua forza. Questo primitivo è, fuor di dubbio, degno di essere paragonato con i vini europei più autorevoli. Al tavolo si sentirà a suo agio non solo in compagnia alle solide pietanze di carne, ma anche con i formaggi freschi, stagionati e piccanti. Il minore, “giovane” primitivo, secondo Pasquale, si sposa con una pizza leggera come la margherita. La clientela di questa azienda però è quasi interamente straniera: americani, giapponesi, alcuni paesi europei. La ragione, per strano che possa sembrare, è sempre quella: in Puglia nessuno è disposto a spendere per il primitivo più del solito prezzo: nella mentalità della gente locale, resta sempre “il solito vino per ogni giorno”…

Proprio al termine del nostro istruttivo viaggio enologico abbiamo scoperto un vino inconsueto, non legato strettamente ad una vecchia tradizione, inizialmente prodotto per commessa degli americani (per una speciale richiesta di uno dei generali dell’armata americana del 1943), che nella Russia Sovietica si trovava già nei famosi negozi “berezka” dove si pagava unicamente con i dollari. Si tratta del vino rosato Five Roses dell’azienda Leone de Castris della zona di Salice Salentino. Nato come combinazione delle viti tipiche di questa zona, il negroamaro (90%) e la malvasia nera di Lecce (10%), prodotte nei vitigni di 40 anni, il Five Roses, giovane ed esuberante nei suoi profumi di frutta a base di ciliegia, contribuisce in maniera originale a rafforzare l’immagine dei vini rossi pugliesi che abbracciano tutte le sfumature di sapore e vengono apprezzati per un’interpretazione naturale della vite autoctona – senza troppa rifinitura di “legno”.

Questa regione man mano incomincia a riconquistare il suo posto sulla mappa enologica italiana. Dal punto di vista qualitativo e di originalità del prodotto, la rivoluzione è già compiuta; alle aziende locali manca solo una politica commerciale comune per la promozione non solo del marchio di una singola azienda quanto, piuttosto, della valorizzazione dell’immagine generale della Puglia come regione vinicola. Speriamo che anche questa iniziativa maturerà tra poco – magari con la nuova raccolta.