ðóññêàÿ âåðñèÿ  acebook twitter mappa del sito

Il centro italiano

Il centro Italo-Russo per le ricerche su mass-media, cultura e comunicazione

Sull’altro lato del mare (Enoteka, #12 dicembre 2007). Eugenia Selisceva

Ostriche su un letto di ghiaccio, un mazzo di gamberoni rossi, tagliatelle di calamari grigliati e una sottile striscia di bollicine nel bicchiere di prosecco color oro bianco… Chi non sogna, almeno una volta nella vita, di sostituire il solito menù natalizio con questa immagine accattivante da rivista “stile dolce vita”? “Ma che banale!”, esclama Carlo Papagni, chef di uno dei ristoranti d’elite di Trani (nella regione di Puglia, Sud Italia), appena accenniamo alle ostriche nel menù natalizio. Nel paese del mare fecondo, dove il polpo grigliato si presenta sul tavolo con la frequenza con cui in Russia si preparano le cottolette e dove in nessuna festa si fa a meno del “crudo” composto di cozze, ostriche e seppie, Carlo Papagni conserva un punto di vista particolare sugli stereotipi e sulle tradizioni. La nostra conversazione ha toccato soprattutto il tema “marino” con lo sfondo degli abbinamenti con i vini. Ma innanzitutto diamo un breve ritratto della località dove ci troviamo.

La costa adriatica della Puglia è piena di barche azzurre dai nomi femminili e romantici – non sono yacht da passeggiate, ma veri e propri mezzi da lavoro. Qui ogni tipo di pesce si chiama con due nomi – l’uno italiano, l’altro dialettale: “dentice”, “sparasalsa”. Il paesaggio delle cittadine marine persino di domenica è popolato da uomini dall’aspetto severo che sciacquano e “arricciano” i polpi sugli scogli dove poi tagliano i tentacoli in striscioline e li mangiano con gusto. Nel periodo estivo, le cozze vendute in retine verdi (quelle che si usavano anche da noi nei tempi sovietici), si consumano a quintali in un solo quartiere. I chioschi improvvisati con i ricci di mare, persino durante il fermo, sbucano ad ogni angolo come le bancarelle delle cianfrusaglie cinesi. I ricci si sono meritati anche una menzione in una delle bestemmie locali più originali (variante attenuata: “e perché non vai a sederti sul riccio”). In una parola, il mare penetra gli angoli più lontani della mentalità locale, e alla fine proprio per questo crea stereotipi, standard e valori culinari sbagliati. Così la pensa il nostro interlocutore Carlo che da venti anni lavora per “la rinascita delle tradizioni culinarie regionali”, attualmente in carica di executive chef del ristorante “Melograno” nella città marittima di Trani, località da un fascino fiabesco, quasi umano.

Il ristorante è una “chicca”: un ambiente ricercato (con il prevedibile accento posto sui melograni) e un servizio elegante senza imposizione; Carlo Papagni, malgrado una carica impegnativa, semplice nel parlare e amichevole sin da subito. Lo chef non cerca di nascondere le sue origine paesane: la pagina del suo sito personale dedicata alla biografia si apre con il toccante “Sono nato nella famiglia di un agricoltore e di una casalinga”. La famiglia Papagni finora produce il vino e l’olio d’oliva, ma a Carlo sin da piccolo non è piaciuta la vita agricola: ormai si può dire che è stata la sua fortuna. Schivando gli impegni sui campi, andò a lavorare in un panificio dove ebbe il consiglio di iscriversi ad una scuola alberghiera a Bari, capoluogo della regione. “Quando andavo a scuola , confessa Carlo, ero bravo solo in due materie – pratica culinaria e tecnica alberghiera, ma ciò mi bastò per essere assunto, subito dopo la fine degli studi, in un grande ristorante dove, ad appena 37 anni, diventai executive chef: in pratica, ero sia lo chef che il direttore commerciale”.

Da 4 anni Papagni gestisce sia “Il Melograno” che il ristorante di una antica masseria trasformata oggi in hotel, nonché si dedica con passione al “lavoro sociale” nel suo settore: la sua presenza si nota nei risultati più che lusinghieri di più di 30 concorsi internazionali, su diversi siti delle città vicine (dove gestisce le rubriche di ricette), nei rapporti stilati dall’Associazione dei cuochi baresi e, infine, in un libro di cucina, pubblicato poco fa dalla “Culinary Team Dolmen” – “squadra” di giovani cuochi pugliesi, allievi di Papagni che lavorano ormai in tutta Europa, ma rimangono uniti dall’idea di conservare le tradizioni culinarie locali.

Energico e pieno d’iniziativa, Carlo si distacca dalla solita immagine dell’italiano del sud. Il colorito regionale emerge solo quando parla della sua famiglia e di come abbia insegnato a cucinare a sua moglie – sempre con quell’accento meridionale che evoca obbligatoriamente associazioni con il parlato dei commessi del mercato. Gli ci sono voluti 16 anni di matrimonio per stabilire gli orari fissi in cucina: nei giorni feriali, quando ne è responsabile la consorte, Carlo si trattiene dalle correzioni e dalla critica; ma non appena si hanno ospiti in casa, “lei deve star tranquilla e aspettare l’ora di lavare i piatti”. L’intonazione tipica meridionale, nello stesso tempo ironica e arrabbiata, si sente anche in quel suo iniziale “Ma che banale!” alla nostra definizione dell’ostrica come “vertice” delle delizie gastronomiche.

- Carlo, come si può spiegare la tua antipatia verso i frutti di mare crudi? Alla fine è la “chicca” della Puglia, la più rilevante particolarità della cucina regionale...

- Ma qui non si tratta della “cucina”, appunto... Per primo, il mare non è più quello di una volta: ciò premesso, mangiando il crudo corri sempre un certo rischio. Senza la depurazione si possono mangiare solo le ostriche allevate, ma tutto il resto deve passare i raggi ultravioletti, altrimenti il rischio è troppo alto. Le strutture di depurazione qui non sono tante, e non tutti i ristoranti acquistano i prodotti ittici lì... Io personalmente garantisco la qualità, ma i frutti di mare per me non sono un prodotto d’elite: una volta aperti si possono servire a tavola, e finisce tutto qui. Sono uno chef di cucina e non un commesso al mercato! Per me il prodotto d’elite è un prodotto che trasformo, non commercializzo. Preferirei esaltare una bavarese di cavoli con le ostriche fritte e un purè di sedano. Questa sì che è fantasia, e dà molte possibilità anche per l'abbinamento con i vini – sia con i rossi, sia con i bianchi, ma meglio di tutto con quelli rosa. È chiaro che le ostriche sono un classico della “cucina” mondiale ed è così da sempre: si apprezza sia in Puglia, in Russia, o, ad esempio, in Francia, ma è proprio per questo che le devo abbinare per forza con il solito prosecco – beh, un po’ monotono, no?

- Ma sono sicura che nonostante tutto i clienti richiedono “il crudo” spesso e volentieri – vuoi dire che non è vero?

- Sì che è vero. Il crudo ormai è kitch, soprattutto ai matrimoni. Per paura di non soddisfare zio Pasquale e zio Michele che vogliono che ci sia di tutto, e quindi anche il “crudo”, si rinuncia ad un menù più sobrio e lineare: altrimenti, aspetta tranquillamente di sentire le critiche dal resto della famiglia. Mi dispiace che sia così perché da noi in Puglia abbiamo ancora tanto pesce buono che quando lo mangi senti davvero il profumo del mare: altro che quello allevato… Insomma, gli stereotipi dappertutto.

- Carlo, sei cosciente del fatto che in questo momento stai distruggendo il mito dell’alta cultura gastronomica italiana?

- Pienamente cosciente: sai, qualcosa qui è assolutamente da distruggere. Secondo te trasformare il pranzo in una maratona è il segno di alta cultura? Al sud le persone non mangiano, combattono. Quattro-cinque ore di seguito. Noi dobbiamo mangiare di tutto, mettere i piatti con gli antipasti sopra gli altri, poi due primi, un secondo di pesce e l’altro di carne, nella pausa un sorbetto di limone, poi copriamo tutto con gli “sporcamuss”, dolci molto diffusi qui in Puglia (pasta fritta con lo zucchero in polvere) e come nota finale eccolo, il famoso limoncello. Un menù da ricovero…

- Sto avendo l’impressione che tu non gradisca molto le tradizioni regionali…

- Al contrario, le tradizioni contano per me molto, e lavoro proprio per farle apprezzare e magari riscoprire dai miei clienti. Non faccio come alcuni chef, pure affermati, che mettono albicocche nel piatto con gli spaghetti e i frutti di mare. Io personalmente seguo sempre le basi della ricetta tradizionale, che si tratti della seppia ripiena, o della zuppa di pesce, o tanto più delle fave e cicorie. La cosa che cambio sono i metodi: facendo la frittura non usiamo nessun olio “di semi vari” che è una bomba – solo l’olio d’oliva che comunque non portiamo ad alte temperature per non fargli perdere tutte le sue qualità nutritive. Se la ricetta lo permette, aggiungiamo l’olio crudo già nel piatto pronto – lo insaporisce anche. Per fare ammorbidire le stesse seppie non usiamo più l’acqua, ma il latte, e nel ripieno mettiamo l’albume montato che è più soffice e il pane bianco. La zuppa di pesce prima doveva stare alcune ore sul fuoco – ora la facciamo leggera come un guazzetto, perché vogliamo spostare l’accento dal sugo al pesce stesso.

- Prima avevi parlato della fantasia e della creatività. Se servendo i frutti di mare ti senti un commesso al mercato, come ti può soddisfare questo lavoro “di correzione”?

- Per esprimere la tua creatività bisogna trovare la forma giusta. A me per esempio sembrava sempre assurda questa nostra abitudine di prendere un sorbetto di limone tra il secondo di pesce e quello di carne – si crea un terribile contrasto di acidità. Perciò al Melograno propongo dei sorbetti dai sapori alternativi: cetriolo, finocchio, sedano, anice… Certo che all’inizio la gente restava interdetta, ma ultimamente la mia “invenzione” piace. In questi giorni devo addirittura tenere un master-class sui sorbetti. Oppure, da qualche tempo si sta affermando il concetto del cosiddetto “predessert”: una zuppa di frutta e verdura. Nella mia interpretazione è uno sciroppo di carota, limone, arancia, pompelmo, sedano e cetriolo, e tutto questo, unito al sorbetto di anice, diventa interessante.

- Le invenzioni stanno nei dettagli, altrimenti nessuno, con i nostri standard così rigidi, le accetterà. C’è però un cambiamento radicale che si sta svolgendo proprio adesso: immagina che ormai pure da noi il primo e il secondo vengono serviti nello stesso piatto!

- In effetti, è difficile immaginare che nel paese degli innamorati della pasta la pace della “regina” venga disturbata della presenza di “terzi”!

- Ma sai, dopo un pranzo così puoi fare una passeggiata in città, invece di correre direttamente all’ospedale. Noi cerchiamo di alleggerire il contesto dello stare a tavola, creare un pranzo più lineare, più concentrato su un argomento. Per esempio, faccio la linguina al sugo di gallinella con il ragù dello stesso pesce. Oppure il risotto con le seppie con sopra seppie grigliate o farcite. Oppure l’astice spaccato a metà, vicino alla linguina con il sugo di questo astice… Mica male, che dici?

- Non è assolutamente male! Ma il vino, in questo caso, lo devo abbinare alla pasta o all’astice?

- Il pregio della vera cucina pugliese è il perfetto equilibrio tra tutte le sue componenti, e quindi una eccellente compatibilità con una vastissima gamma di vini. Come chef di cucina io consiglio l’abbinamento vino-cibo piatto per piatto, ma in ogni caso la vostra scelta può essere molto ampia. Anche nel contesto del pesce noi non ci limitiamo solo al bianco. Le regole sono una cosa bella, ma ora stanno venendo meno, ed io personalmente preferisco affidarmi alla mia ragione.

- Il pesce e i frutti di mare vanno bene soprattutto accompagnati dalle verdure: per esempio, collochiamo un’orata grossa o una spigola su un crostone di pane, con la bavarese di peperoni, zucchine e fiori di zucca: un piatto del genere lo possiamo abbinare sia con il bianco, che con il rosato o un rosso leggero, dipende anche dal pesce. I nostri abbinamenti sono all’80% con vini pugliesi: con il “mare” va benissimo il bianco Locorotondo (il nome della cittadina dove viene prodotto), una combinazione dei vitigni Verdeca e Bianco d’Alessano. Il profumo asciutto di fieno diventa una base perfetta per il prodotto crudo e rende più “morbido” il sapore del cotto. L’azienda “Rivera”, uno dei nostri fornitori, ha fatto anche una versione “leggera” del Locorotondo, il “Vivace”, che si avvicina al prosecco e risalta ancora di più il sapore naturale del mare.

- Vale la pena menzionare anche una ricca gamma dei vini bianchi Castel del Monte, vitigni chardonnay e sauvignon, leggermente più forti e più fruttati. Con l’orata o la spigola grigliate consigliamo di solito il Castel del Monte “Pietra Bianca” della “Tormaresca” con l’accento sul profumo di pesca e un’”eco” dei frutti esotici e della vaniglia. Lodevole è anche il nuovo rosato della stessa “Rivera”, “Pungirosa” (bombino bianco) con la nota principale di ciliegia e il retrogusto leggermente acidulo, ma gradevole. Ma se noi vogliamo seguire la tradizione, bisogna dire che in Puglia il cavallo di battaglia è il vino rosso e il fegato del polpo bisogna abbinarlo con un nero di troia.

- Molti non sanno che il polpo ha gli occhi o che quella parte che sembra la testa è effettivamente la sua pancia. Io invece del fegato ne sento parlare per la prima volta…

- Come sarebbe la prima volta? Il fegato si trova giusto nella pancia. Se compri il polpo non pulito, non sarà affatto difficile trovarlo. Da noi lo chiamano anche “il caviale dei poveri”. Una volta abbiamo organizzato una serata a base di pesce povero. Gli sgombri, i cefali, le alici: il pesce-spada suona probabilmente più interessante, ma questi pesci, se li prendi freschi dal mare, non hanno niente a che vedere con quelli “pregiati”, ma congelati. Come entree abbiamo fatto appunto i crostoni di pane con il fegato fritto di polipo: bisogna semplicemente toglierlo dalla pancia e violentarlo in padella: diventa così un patè da spalmare. La nostra cucina è la cucina delle persone povere che non buttano niente, sanno valorizzare tutto.

- Oppure il nero di seppia, uno dei piatti più tradizionali: togli le uova con il nero dentro, metti un po’ in padella, e basta – prendi solo il pane e il vino rosso, per esempio il Nero di Troia dell’azienda “Santa Lucia” della vicino Corato… Magari l’immagine non è così lussuosa come le ostriche su un letto di ghiaccio, ma oggi questi piatti, se si presentano nel modo giusto, possono diventare una vera “chicca” per qualsiasi ristorante.

- Tornando al Natale: che cosa cucini per festeggiare in famiglia?

- Rape, baccalà, anatra, frittelle con cipolla, mozzarella e pomodoro, i dolci, che non devono mancare mai – e niente che assomigli all’aragosta. Ma che c’entra l’aragosta con il Natale?